"Grazie dell’invito e un grazie particolare a Considi e all’Università che ci ha offerto questa bella opportunità.
In verità ho avuto una giornata notevolmente interessante oggi a Padova perché ho visitato gli Scrovegni con una guida molto preparata e intelligente, nel pomeriggio ho ri-visitato la comunità “Civitas Vitae” che resta una grande realizzazione. E stasera abbiamo avuto questa bella sorpresa, la scoperta di questo bellissimo Orto Botanico che ci aiuta a capire i legami tra il passato e il futuro attraverso il presente, e quindi a migliorare il nostro presente. Io farò alcune riflessioni, sull’impresa e il momento economico generale e italiano. Prenderò le mosse da un’osservazione che ha fatto recentemente Leonardo Becchetti , un economista universitario molto bravo che non è solo un economista ma è l’animatore di un movimento che si chiama “Next” e che è impegnato per cercare di fare evolvere il pensiero economico verso nuovi modelli di pensiero e di comportamenti, che ci aiutino a uscire dal vicolo cieco nel quale ci siamo tutti cacciati. Lui vede l’origine delle nostre difficoltà in tre riduzionismi che mi sono piaciuti molto, perché riassumono con grande sinteticità ed efficacia alcuni passaggi critici fondamentali riassunti in 3 eguaglianze: il primo è persona, homo economicus (come insegna la teoria economica), il secondo è valore economico =, PIL. Il terzo è impresa = produttrice di profitto solo per gli azionisti .
Questi tre riduzionismi che possiamo chiamare il primo antropologico, il secondo riduzionismo del valore e il terzo riduzionismo dell’impresa, sintetizzano il modo asfittico con il quale la teoria economica, non solo italiana, ha portato il mondo in un vicolo cieco di una crisi di cui non si vede l’uscita, se non riusciamo a fare dei salti importanti in termine di reale innovazione. Se non cambiano i paradigmi.
Il primo riduzionismo antropologico è un pilastro del pensiero economico. Il pensiero economico, la teoria economica è tutta basata sull’homo economicus. Chi è l’homo economicus? E’ un uomo che si comporta in ogni momento della vita solo sulla base di calcoli economici e quindi annulla qualunque profilo di relazione, di umanità, di comportamenti dettati da qualcosa di diverso dal puro calcolo economico. Questo uomo è in realtà un fantasma inesistente o, come lo chiama il premio Nobel Amartya Sen, un “folle razionale” nel senso che presumibilmente ragiona come un computer ma è folle per i presupposti e per l’indirizzo nel quale dirige la sua capacità di calcolo. Un altro grande premio Nobel dell’economia dice che un uomo così è la vergogna della famiglia umana. Becchetti invece dice che uno psicologo potrebbe dire che gli economisti sono bene strani, perché il modello di uomo che propongono e sul quale basano le loro teorie, se esistesse davvero dovrebbe essere messo subito in terapia. Chiunque di noi che si comportasse solo in chiave economicista dovrebbe essere messo in terapia perché sarebbe un uomo pericolosissimo per tanti. Quindi l’homo economicus è un idiota sociale così come questo concetto veniva usato nell’Atene di Pericle. Eppure gran parte del pensiero economico e delle decisioni si basano su questo uomo folle. Bisogna dire che l’economia d’azienda che è più realistica e più vicina alla realtà di quanto lo sia l’economia generale, è meno colpita da questo riduzionismo perché noi ci interessiamo della leadership, ci interessiamo del lavoro di squadra, delle alleanze strategiche e tutto questo non può esistere nell’ambito dell’homo economicus ma nell’ambito dell’uomo normale.
Sul secondo riduzionismo, c’è ormai una letteratura che dice che non possiamo interpretare l’economia solo col PIL. Questo non vuol dire che il PIL sia uno strumento inutile; è stato ed è uno strumento utile ma ridurre l’economia solo alla lettura dell’andamento del PIL è una follia. Facciamo un esempio semplice. Noi abbiamo in Italia circa 1 milione di dipendenti nella pubblica amministrazione in eccedenza. Quindi dovremmo studiare come alleggerire questa eccedenza (che risulta anche dal confronto con altri paesi più efficienti) come rientrare in una situazione più equilibrata senza creare drammi a nessuno, come ridurre tale eccedenza attraverso incrementi di produttività, attraverso semplificazioni, attraverso tante cose. Se invece decidessimo di assumere di colpo un altro milione di amministratori pubblici il nostro PIL contabile aumenterebbe perché nella conta del PIL vanno gli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, per una convenzione contabile. Se facessimo costruire in piazza del Duomo a Milano o vicino agli Scrovegni una serie di villette a schiera, il PIL aumenterebbe ma la nostra ricchezza vera diminuirebbe in modo drammatico. Questi esempi vi danno un’idea di come questo strumento sia rozzo, come è stato dimostrato anche sul piano teorico, sin da quando Robert Kennedy nel 1968, all’Università del Kansas, affermò, con parole piene di passione, “il PIL ci può dire tutto meno quello che è necessario per sentirci orgogliosi di essere americani”. Da allora si sono sviluppati degli strumenti che introducono altri indici, altri modi di valutare le cose. Ultimamente lo ha fatto anche il nostro Istat che a marzo del 2014 ha introdotto un indice interessante. Però nonostante questi sforzi, noi vediamo che nella realtà del dibattito pubblico, delle decisioni di governo, del fare o non fare, continuiamo ad essere inchiodati su questo PIL per cui lo 0,5 più del PIL o lo 0,5 in meno del PIL determina effetti enormi, paure catastrofali o entusiasmi fuori posto. Ed il modo di pensare della teoria economica così insufficiente su questo strumento è diventato il modo di pensare di tutti noi, dei nostri giornali, dei nostri governanti e continuiamo a ragionare in modo molto inadeguato.
Il riduzionismo dell’impresa si basa su un concetto, su una teoria, su un principio che si è sviluppato soprattutto negli ultimi trent’anni e cioè che il management dell’impresa deve pensare solo a produrre il massimo profitto per gli azionisti. Punto. E non deve interessarsi di altro, degli effetti del suo comportamento sulla città, sull’ambiente, sul lavoro, sulla civiltà, sull’umanità. Quindi uno che si mette il timbro di manager può dire: “io di queste cose non so niente, non mi interessa niente, la mia etica esclude questo e quindi pensa solo a fare il massimo profitto per gli azionisti”. Questo è contrario a qualunque esperienza vera che noi abbiamo nelle imprese, é contrario all’etica dell’imprenditore come lo conosciamo nella storia, dell’imprenditore sano e responsabile, ed è l’origine di enormi danni creati negli ultimi trent’anni perché è su questo concetto che si sono fatte e disfatte operazioni societarie gigantesche errate, che si sono concentrati i poteri economici in modo enorme, che si sono fatte acquisizioni che non si dovevano fare, che si sono fatte fusioni che non si dovevano fare e che si sono sviluppati modi di pensare assai pericolosi che chiamiamo “finanziarizzazione dell’economia”. Noi pian piano siamo diventati tutti capaci di pensare solo in termini finanziari a breve termine. Un grande studioso aziendale americano che è morto negli anni ’60 diceva: bisogna andare “behind the figures”, al di là delle cifre, sapere cosa c’è dietro le cifre, quali sono i valori veri, quali gli effetti che il nostro comportamento come imprenditori o come manager determina. Non fermarci solo alle cifre. Noi stiamo tutti ragionando sempre di più fermandoci alle cifre, siamo diventati tutti neocontabili, neoliberisti, neofinanziari e non pensiamo più ad altro e pensiamo sempre meno all’innovazione e pensiamo sempre meno allo sviluppo, e pensiamo sempre meno al futuro. La teoria di impresa invece, lungo la sua storia, ci racconta che l’impresa è stata uno dei più potenti strumenti di sviluppo. Se andiamo a vedere i nostri grandi imprenditori che sono stati i creatori di quello che chiamiamo capitalismo nel senso di sviluppo del mercato e della produzione guidata da criteri di mercato; se andiamo a vedere Siena, se andiamo a vedere Firenze e se andiamo a vedere Venezia, troviamo che si è sempre coniugata l’efficienza economica, gli obiettivi economici, con l’incivilimento, che era la parola magica con la quale i nostri grandi pensatori dello sviluppo italiano, i grandi illuministi lombardi, ma anche i grandi illuministi napoletani intendevano lo sviluppo. L’impresa è sempre stato un docile strumento per uno sviluppo che non fosse disgiunto dall’incivilimento. Chi ha progettato e finanziato la maggior parte delle opere che oggi arricchiscono Firenze, sono stati gli imprenditori, che all’epoca erano prevalentemente mercanti e imprenditori tessili o i grandi mercanti come a Siena. Chi ha fatto il Palazzo del Popolo, chi ha finanziato la cupola del Brunelleschi? Chi ha finanziato l’Ospedale degli Innocenti di Firenze che c’è ancora oggi e che ancora funziona: un certo signor Datini, mercante tessile di Prato. Questi imprenditori erano convinti che se la loro città era bella, che se la loro città era civile, che se loro contribuivano allo sviluppo della città questo rafforzava anche il loro ruolo economico, la loro forza negoziale, la loro impresa. Quando venivano i concorrenti tessili da Lione a Firenze quelli della società della lana di Firenze dicevano: “questo lo abbiamo fatto noi, la nostra città è forte”. Come Coluccio Salutati (1303-1406), uno dei grandi cantori di questa epopea, diceva della sua Firenze: “Nos popularis civitates, soli dedita mercatura”.
Questo è un mondo ed un pensiero che dobbiamo recuperare perché fa parte delle radici vere dell’imprenditoria italiana che negli ultimi trent’anni abbiamo buttato via. Prima di tutto l’abbiamo buttata via come professori universitari, quando abbiamo pedissequamente assimilato i modelli americani e li abbiamo divulgati come se fossero la verità assoluta e la vita. Dobbiamo molto agli americani come tecniche aziendali, ma dobbiamo molto agli americani anche perché ci hanno portato nel vicolo cieco iniziato nel 2008, che non è finito e ci hanno fatto capire che se non cambieremo modo di pensare non finirà per lungo tempo. Perché questo processo di finanziarizzazione dell’economia è legato ad un altro fenomeno impressionante ed è il fenomeno della concentrazione della ricchezza. C’è un curva impressionante che è la curva della concentrazione della ricchezza in America (ci rifacciamo all’America perché lì questo fenomeno è più forte ma anche perché lì abbiamo i dati sempre più affidabili).
Nel 1928 appena prima della grande crisi degli anni ‘30, l’1% della popolazione controllava il 23,9% del reddito nazionale, quindi c’era una concentrazione di ricchezza fortissima. Scoppia la grande crisi, entra il New Deal di Roosevelt, c’è un grande cambio politico e concettuale che si prolunga e che dà vita a quelli che chiamiamo “i magnifici trenta”. I magnifici trent’anni nei quali la ricchezza si è distribuita su vasti strati della popolazione. Nel 1975 sempre quell’1% che nel ’28 controllava il 23,9% della ricchezza, nel ’75 controllava solo l’8,9%. Vedete come la ricchezza si è distribuita in questo trentennio e ha dato vita a quello che chiamiamo capitalismo democratico, sviluppo del ceto medio, sviluppo dei consumi, questa società equilibrata e sostenibile. Nel ’75 la curva gira verso l’alto per una serie di fenomeni, che purtroppo non si possono analizzare qui; riparte il processo di concentrazione. Nel 2007, prima dello scoppio della grande crisi del 2008, ritorniamo esattamente allo stesso punto dove eravamo nel 1928: l’1% della popolazione controlla il 23,5% della ricchezza. Questo fenomeno di concentrazione è contrario a uno sviluppo economico diffuso, sostenibile e con oscillazioni contenute. E questo fenomeno americano, non è solo americano. In Europa è seguito nell’ordine dall’Inghilterra, dalla Spagna e dall’Italia, i paesi dove negli ultimi vent’anni c’è stata la maggiore concentrazione di ricchezza. La settimana scorsa il Credit Suisse, che da 7 anni fa dei rapporti molto completi sulla concentrazione della ricchezza, ha pubblicato il rapporto 2014 sui dati del 2013. E sono dati impressionanti. A livello mondiale lo 0,7% più ricco della popolazione controlla il 44% del reddito mondiale. La quota detenuta dal 70% della popolazione mondiale è il 3%. Vedete che questo processo di concentrazione ha raggiunto livelli tremendi che storicamente sono sempre stati accompagnati e causa di crisi gravissime sia economiche che sociali che militari. Ecco perché pensare che noi siamo usciti dalla crisi è un’illusione. Noi siamo in un processo di trasformazione tremendo e che non viene affrontato nelle sue autentiche radici, che sono questi gravi fenomeni della finanziarizzazione e della concentrazione della ricchezza. Si continua a cercare di affrontarlo con interventi palliativi, togliamo un po’ qui un po’ là. Mentre noi dobbiamo fare un grande sforzo per respingere sul piano intellettuale la finanziarizzazione dell’economia che ha portato a d un modo di ragionare che spinge l’economia reale, l’economia dell’innovazione, l’economia della responsabilità, sempre più in un angolo e si sviluppa sempre di più quella impresa irresponsabile di cui parlavo prima. E questo ha effetti molto negativi anche sul processo dell’innovazione. Noi siamo in un momento di cambiamenti importantissimi di tutti i tipi e questi processi sono dei processi che chiamano ad uno sforzo di innovazione molto grosso. Noi dobbiamo creare lavoro ma non possiamo pensare di crearlo continuando a fare le cose di cui i mercati sono saturi o di cui non c’è bisogno. Diceva Einaudi: “il mercato risponde alla domanda non risponde ai bisogni”. L’innovazione consiste nell’andare a capire i nuovi bisogni e dare le risposte nuove ai nuovi bisogni. Da lì verrà fuori il nuovo sviluppo, da lì verrà fuori la nuova occupazione. Se noi non ci dirigiamo verso questo modo di pensare, di agire e di unire le forze continueremo a declinare silenziosamente. E per far questo abbiamo bisogno di ripensare veramente i rapporti tra impresa e lavoro. Io sono stato amministratore di società tedesche per molti anni e mi sono reso conto che la distanza, in termini di civiltà del lavoro, tra la Germania e noi si misura in 70-80 anni, nel senso che i passaggi che noi non abbiamo ancora fatto loro li hanno fatti 70 anni fa. Quali passaggi? Quello fondamentale è di interiorizzare nel modello culturale di tutti che non c’è solo il datore di lavoro e il lavoratore ma c’è un soggetto che non si identifica né con uno né con l’altro e che è l’impresa come soggetto autonomo di sviluppo, che risponde ad una molteplicità di interessi perché nell’impresa confluiscono l’interesse dell’azionista, l’interesse degli amministratori ma anche l’interesse del lavoro, l’interesse della città, l’interesse dei fornitori, l’interesse delle piccole imprese che intorno all’impresa vivono. E se ignoriamo tutti questi collegamenti abbiamo la rissa continua. Abbiamo l’Ilva. L’Ilva è l’impresa irresponsabile per definizione e ne acquisiamo certezza sapendo che ci sono imprese siderurgiche che invece hanno risultati umani, ambientali e sociali ben diversi. Vi cito una sentenza del 6 novembre 2014, pochi giorni fa, della Corte di Cassazione. Questa sentenza della Cassazione, di fronte ad una comprovata truffa che un dirigente di una filiale di una banca ha fatto contro la sua banca con il coinvolgimento di un certo numero di dipendenti della filiale, è stato giustamente licenziato dalla banca. Arrivato in cassazione ha vinto la causa. La cassazione ha stabilito che se un dipendente truffa il suo datore di lavoro e questa truffa non è continuativa e comprovata come ripetuta ma è abbastanza occasionale, allora questo dipendente deve essere reintegrato e risarcito. Siamo su una concezione giuridica, non parlando da giurista ma parlando da economista, da sociologo, da cittadino, folle! E perché è così? Perché questi giudici non hanno la visione dell’impresa non si rendono conto che se uno truffa l’impresa, sta truffando gli altri lavoratori di quella impresa sta danneggiando qualcuno che non è il datore di lavoro è l’impresa stessa e quindi tutti i suoi lavoratori. Se non traghettiamo questo passaggio nella cultura giuridica, giornalistica, economica non ne veniamo fuori, Job Act o non Job Act. Siamo inchiodati su temi di grande retroguardia. Quando si parla di queste cose in paesi avanzati come la Germania ma credo anche in Giappone, ci rendiamo conto che noi andiamo male in tanti campi perché siamo molto arretrati, molto arretrati in passaggi culturali fondamentali. Prima di chiudere volevo leggervi un passaggio di Peter Drucker che, secondo me, è il più grande studioso di management degli ultimi settant’anni. Tedesco trapiantato in America, fuggito dal nazismo, uomo di grande cultura europea, chiude il suo libro più importante, che è quello che ha avuto più influenza , un libro del 1954, con queste parole: “l’istruzione intellettuale non sarà sufficiente da sola a fornire ad un dirigente i mezzi necessari per far fronte ai compiti che lo attendono nel futuro. Il successo del dirigente di domani sarà sempre più strettamente connesso con la sua integrità morale. Infatti con l’avvento dell’automazione, l’influenza e la portata temporale delle sue decisioni sull’azienda nel suo complesso e rischi connessi saranno talmente gravi da esigere che il dirigente anteponga il bene comune ai sui stessi interessi. La sua influenza su coloro che lavoreranno con lui in un’azienda sarà così decisiva che il dirigente dovrà basare la sua condotta su rigidi principi morali anziché sulle esperienze”. Questo messaggio non è stato colto. La classe dirigenziale non si è comportata così, come classe. E naturalmente non parlo solo dell'Italia. Noi sappiamo che ci sono tantissimi dirigenti, tantissimi imprenditori e so che alcuni di questi sono rappresentati in questa sala, che invece hanno realizzato nella loro quotidianità questo modo di agire e di guidare le imprese. Ma se pensiamo al management, come classe, dobbiamo dire che ha fallito. E questa è una delle concause forti del perché siamo entrati nella crisi del 2008 e perché l’Italia è in maggiore difficoltà rispetto ad altri paesi. Dobbiamo dare una risposta su questo punto. La risposta è che noi continuiamo ad attribuire alla crisi mondiale fenomeni che con la crisi non hanno niente a che fare. L’Italia è travolta da due tsunami. Uno tsunami che viene dalla crisi, dalle sfide e dalla competizione legata alla crisi, dalle sfide dell’innovazione eccetera; ma un altro tsunami è cosa nostra e deriva da tutti i mali sociali che non abbiamo voluto affrontare e curare negli ultimi trent’anni. Se abbiamo un livello di corruzione più alto di tutti i paesi sviluppati ciò non c’entra niente con la crisi. Se abbiamo intere regioni controllate dalle mafie non c’entra niente con la crisi. Se abbiamo il comune della capitale, come abbiamo letto in questi giorni, in preda di bande allucinanti non c’entra niente con la crisi. Con le cause della nostra crisi si, ma non c’entra con la crisi internazionale.
La nostra crisi è così tremenda e così dura e fatichiamo tanto a correggere e ad emergere perché questi mali, queste piaghe bibliche del nostro paese non le vogliamo affrontare. Innocenzo Cipolletta ha detto una cosa molto giusta: “Gli italiani sono innovatori, l’Italia non è innovatrice”. Noi ci rifiutiamo di affrontare i nostri veri problemi. I veri problemi non sono quelli che leggiamo sui giornali ogni giorno. Sono molto diversi e ne ho schizzati alcuni poco fa. La situazione è tale per cui l’appello di Drucker del 1954 non è più sufficiente. Non ne usciamo più solo con la morale personale. Se pure riusciamo a diventare tutti noi singolarmente migliori, oramai il male è troppo diffuso per farne un discorso solo di morale individuale e personale. Dobbiamo trovare le vie per riproporre una morale pubblica, una morale civica, un impegno collettivo.
L’impegno individuale non basta più. E’ necessario un impegno collettivo, non solo per le nostre aziende o per le nostre famiglie ma per le nostre città, per il nostro paese, per la nostra convivenza, per il nostro stare assieme. Dobbiamo ritornare a credere quello che credevano i grandi pensatori italiani che la crescita economica si fa attraverso l’incivilimento e solo attraverso l’incivilimento”.
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