La Semiconductor Industry Association (SIA) degli Stati Uniti insieme alle altre associazioni a livello globale deputate allo sviluppo e produzione dei semiconduttori (e quindi processori) hanno elaborato un documento che segna la fine della “Legge di Moore”.
Gordon Moore, (cofondatore della Intel) nel 1965 osservò che circa ogni due anni poteva raddoppiare la potenza di calcolo dei computer a parità di dimensione del processore. Da allora, la produzione dei processori si è evoluta rispettando sempre tale regola.
Oggi i microprocessori più potenti hanno circuiti larghi 14 nanometri (un miliardesimo di metro) e si sta lavorando per farne di ancora più piccoli, ma ci sono limiti fisici con i quali si dovrà fare i conti quando si arriverà nell’ordine dei 2-3 nanometri. Con questa dimensione i componenti saranno larghi quanto una decina di atomi diventando instabili, poco affidabili e sviluppando un calore difficile da dissipare.
C’è inoltre il tema dei costi, ad ogni innovazione tecnologica servono macchine litografiche nuove e più avanzate (richiedendo investimenti misurati in miliardi di dollari) a cui si aggiunge l’elevata frammentazione di mercato che complica maggiormente il ritorni degli investimenti.
Rappresentativa è la frase di Daniel Redd (informatico e vicepresidente della ricerca alla University of Iowa): "La mia scommessa è che finiremo i soldi prima che la fisica".
In un articolo pubblicato su Nature, M. Mitchell Waldrop spiega che a breve si vivrà un passaggio storico per i produttori di processori che aprirà nuove opportunità per la cosiddetta “Internet delle cose” (“Internet of things”), cioè la possibilità di avere oggetti che dialogano tra loro online svolgendo compiti di vario tipo.
Anziché rendere i chip migliori e far sì che nascano in seguito soluzioni capaci di sfruttarli, il paradigma potrebbe invertirsi mettendo al centro lo scopo finale (il software), per poi lavorare a ritroso al fine di capire le caratteristiche che un chip deve avere per soddisfare le richieste.
L’idea è di concentrare in modo più proficuo le attenzioni sulle effettive necessità di chi usa i dispositivi, e che sono molto più complesse di una semplice indicazione di velocità di un microprocessore.
Ci piace poter pensare di ricondurre questa evoluzione tecnica informatica (sviluppare processori in base alle tipologie di utilizzo, ottimizzandone i software e quindi il consumo) ad alcuni concetti base del pensiero Lean e TPS (ovvero generare valore per il cliente capendone le esigenze ridurre gli spechi facendo tanto con poco).
L’internet delle cose e l’industria 4.0, se correttamente gestiti, possono essere quindi visti come una naturale evoluzione dei progetti Lean/TPS.
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